L’ESPRESSO
SU
TEATRO AZIONE
Roma. L’Espresso, 22 aprile 1984. In scena dottor Socrate: in un locale di Trastevere, una ventina di giovani imparano a “interpretare la propria vita”. Ma non tutti per diventare attori…
DI FABIO RINAUDO
Ieri Maria Laura è sfuggita all’assassino, Antonio “si è” partorito con difficoltà, e poi abbiamo giocato alla guerra… Oggi Giuditta racconterà una favola, Roberto discuterà con le sue paure, alla fine voleremo tutti insieme per destinazione ignota.
Racconta Censi: «Fin da quando ho cominciato a recitare dopo essere stato allievo di Strehler al “Piccolo” di Milano, mi chiedevo che cosa c’era dietro l’attore, meglio, dentro l’attore.
Cosa succedeva. Come mai, a volte, un attore estroverso e disinvolto nella vita risultasse poi, sul palcoscenico, falso e costruito… O viceversa: una persona timida poi sul palcoscenico si scatenasse. O anche: un timido e bloccato rimanesse tale sia nella vita che sul palcoscenico. Cosa c’è dietro? Che cos’è la “comunicazione”? Di che si tratta? Poi ho cominciato ad interessarmi a quelle ricerche attraverso le quali si è scoperto che solo un corretto, autentico rapporto con se stessi porta a stabilire un vero, totale dialogo con il prossimo. Questi principi, applicati al teatro, riescono a far capire all’attore perché un personaggio si comporti in un certo modo, o una vicenda inventata da un autore (vero) si evolva in un certo senso. In fondo l’arte drammatica è l’arte della comunicazione per eccellenza. Il vero, il falso, sono problemi di comunicazione. Quando l’attore diventa maturo, integrato non esistono più situazioni costruite, artificiali. E ho capito che dall’intimo, dal profondo nasce l’attore naturale, semplice, credibile, quello che si conosce “dentro” ed è quindi sbloccato, disinibito, dinamico. Il risultato di queste riflessioni è questa “scuola”, se vogliamo chiamarla così».
Abbiamo assistito diverse volte al lavoro di Cristiano e di Isabella e dei loro allievi (o, forse, meglio, amici) per verificare come la teoria diventi pratica.
Singolarmente, o in coppia, o in gruppo questi giovani svolgono sul palco i temi assegnati loro dai “maestri”, che spesso si sintetizzano in una parola: per esempio “vita”, “depressione”, “conoscenza”. Si comincia con una breve fase di concentrazione, poi l’allievo deve esprimere il tema con tutta la fantasia, la creatività, l’emotività che gli premono dentro; spesso i risultati sono clamorosi, imprevedibili, tanto che Isabella deve intervenire per frenare l’aggressività di un “dottor Jekyll” trasformatosi con la sola fantasia in “Mr Hyde”. O si arricchiscono di varianti e di integrazioni, come nell’esperimento di gruppo del viaggio aereo che comprende un dirottamento, una zuffa collettiva, il terrore della morte incombente, la salvezza caotica proprio come nella realtà. Alla fine l’impeto liberatorio esplode in vera e propria felicità: i giovani si applaudono, si baciano, piangono l’uno sulla spalla dell’altro, in un happening che ricorda la condizione del bambino cui sia riuscito un gioco apparentemente impossibile.
Questo spiega perché i giovani del “Torchio” siano soddisfatti del loro tirocinio, anche se il ventaglio delle loro provenienze e aspirazioni è il più variopinto che si possa immaginare.
«Vengo qui da due mesi, cioè da quando Cristiano e Isabella hanno cominciato», ci ha detto Carlo, 33 anni, bancario. «Non voglio far l’attore, ma sbloccarmi, arricchirmi. Già i miei rapporti con il lavoro, con gli stessi superiori, sono cambiati». Monica e Cinzia, 24 anni, impiegate entrambe in un ministero, hanno già recitato da dilettanti, per il futuro prevedono “anche” un’attività di attrici ma soprattutto cercano un approccio più sicuro col prossimo. E Angelo, 26 anni, pugliese, che ha inventato, noi presenti, una poetica favola sulle punteggiature che Gianni Rodari non avrebbe disdegnato di firmare, afferma: «Non so se riuscirò a far l’attore, ma è certo che resterò in teatro sia pure come macchinista».
Più numerosi, ovviamente, gli aspiranti professionisti, anche se a diversi livelli. Grazia, 27 anni, impiegata, dice: «La mia vera ambizione è scrivere. Vengo qui perché quello che facciamo stimola la mia fantasia creativa, forse in direzione drammaturgica. Certo è che queste esperienze mi restano dentro, tanto è vero che anche i miei rapporti familiari sono cambiati: solo adesso mi accorgo di amare mio fratello, con cui per anni ci eravamo ignorati. Da questo nuovo rapporto può nascere un romanzo, una commedia…». Altre ambizioni coltiva Maurizio, 24 anni, di Rimini: «Io sono un “film-maker”, ho lavorato col ‘super 8”, voglio andare avanti. Ma un potenziale regista deve imparare a recitare per dirigere gli attori». Finché si arriva a Sonia, 22 anni, da otto attrice professionista, con venti film non memorabili sulle spalle, finora soprattutto stella di carta per la sua somiglianza con Carolina di Monaco e i gloriosi nudi esibiti sulle riviste specializzate.
Come convivono questa Sonia e quella che da Censi inventa un universo di specchi che non ne riflettono l’immagine?
«Non convivono. Quello pubblico è un personaggio finto, la prima tappa di una carriera che forzatamente ho dovuto basare sull’avvenenza. La vera Sonia è quella che si ricerca, si studia, si capisce ogni pomeriggio al “Torchio”».
Parliamo di queste confessioni con Isabella. «È ancora presto per intuire il destino di ciascuno. Dopo appena due mesi non abbiamo neanche un’idea precisa sulla durata dei corsi, sul numero ottimale dei partecipanti. Ogni giorno ne arrivano di nuovi, c’è chi dopo una settimana si sente già “sbloccato”, chi si comincia a realizzare solo quando sta qui dentro, il che significa che deve ancora lavorare a lungo. Del resto, a parte i temi e i problemi dell’attore a livello psicologico profondo, qui non seguiamo nessun metodo. Io e Cristiano non ci siamo portati dietro i nostri maestri, ma tutta una vita di attori e di autori».
Teatrante a ciclo completo, Censi ha cominciato con Dario Fo, poi s’è messo in proprio anche come autore dei testi recitati insieme a Isabella (il primo successo: “Cosa stiamo dicendo?”, tratto dalle strisce di Feiffer, è del ‘68). Dalla coppia al quartetto, con Alida Cappellini e Toni Garrani, testi di più vasto respiro (“Pesci Banana” e “A volte un gatto”), attività al Delle Muse, prevista anche per l’anno prossimo.
«L’approdo in palcoscenico resta la vera finalità della scuola del “Torchio”», precisa Censi.
«Certo, ci saranno alcuni che dal lavoro in corso trarranno solo un’esperienza di vita, una più limpida conoscenza del proprio io. E sarà già qualcosa. Ma la maggior parte, spero, continueranno, perché questo non è un centro di psicoterapia. In un secondo momento passeremo alla parte tecnica del programma, alla costruzione dell’attore professionista: respirazione, impostazione della voce, espressione, interpretazione… Ma a questo punto il più, quello che stiamo facendo adesso, sarà già acquisito: il resto è soltanto una questione di allenamento, di incanalamento nei binari della teatralità di tutta l’enorme forza creativa che questi giovani hanno fatto esplodere.»
«lo ho visto su quel palco», conclude Isabella, «delle cose mirabili, delle interpretazioni che vengono dal profondo, così ricche, così perfette da far invidia a un grande attore».
Fabio Rinaudo
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